01/01/2013 - 01:00

Relazione annuale dell'Autorità energia elettrica e gas

"Porre un tetto alle emissioni di anidride carbonica è essenziale per attuare delle politiche energetiche e industriali che diano impulso all'innovazione industriale. Lo hanno capito Francia, Germania e Regno Unito, che proprio oggi hanno chiesto l'innalzamento dell'obiettivo di riduzione delle emissioni a -30% entro il 2020.
Secondo il WWF il presidente dell'Autorità per l'Energia, Alessandro Ortis, pare sia andato oltre i propri compiti istituzionali, proponendo una visione vecchia e confondendo una delle possibili misure attuative (il contenuto di CO2 per prodotto) con l'obiettivo. Tutto ciò nel solito balletto di responsabilità tra il settore energetico e quelli manifatturieri, e nell'illusione che colpire i prodotti provenienti da altri paesi non riguardi l'industria italiana globalizzata, quando è chiaro che nel mondo decarbonizzato del futuro le misure dovranno riguardare tutti i settori, a partire certamente da quello che direttamente brucia combustibili fossili, quello energetico". È il commento di Mariagrazia Midulla, responsabile Clima ed Energia del WWF Italia alla relazione annuale letta oggi alla Camera dal Presidente dell'Autorità per l'Energia, Alessandro Ortis, nel quale si afferma che 'per l'Europa si pone anche la necessità di superare le logiche, onerose e inefficaci, fino ad ora seguite per far fronte al cambiamento del clima' e si propone l'abbandono del sistema cap and trade e per passare alla sabbie mobili del WTO.

"Si sono sprecati anni e anni in questo rimpallo istituzionale, contestando le norme europee invece di applicarle, e non vediamo perché il Presidente dell'Autorità abbia voluto proporre una concezione così vecchia", sottolinea Midulla. L'attuale obiettivo di riduzione delle emissioni del 20% entro il 2020, alla luce del trend attuale di riduzione a livello europeo, è sottostimato rispetto alle potenzialità e costringerebbe l'Europa a fermarsi, con il grave rischio di riprendere l'ascesa delle emissioni inquinanti una volta attenuata la crisi economica e di perdere l'occasione di imprimere una forte spinta di politica industriale verso la nuova economia pulita. Mentre a livello mondiale gli investimenti pubblici e privati verso la green economy si moltiplicano, anche quale strumento di uscita dalla crisi e con la finalità di raggiungere la sicurezza energetica, l'Europa non può permettersi di abbandonare la politica su cui ha fondato la propria azione negli ultimi 10 anni proprio ora che sta decollando a livello mondiale.

La richiesta degli ambientalisti di portare l'obiettivo europeo di riduzione delle emissioni come minimo al meno 30% entro il 2020, dunque, nasce da considerazioni che vanno anche oltre i negoziati internazionali per un nuovo accordo sul clima, pur nascendo dalla convinzione che un recupero di leadership europea gioverebbe a un successo in sede multilaterale. Secondo i calcoli del Potsdam Institute, l'attuale target di riduzione del 20% entro il 2020 equivarrebbe a un -0,45% di riduzione l'anno, al di sotto del trend di riduzione storica dello 0,6% l'anno dal 1980. In altre parole, l'Europa dovrebbe decelerare o addirittura fermarsi.

Questa situazione è pericolosa sotto almeno due punti di vista, uno ambientale e l'altro economico. Dal punto di vista ambientale, una riduzione dello sforzo di riduzione in presenza di un rallentamento produttivo dei settori energivori (come l'acciaio) implica che una volta terminati gli effetti della crisi economica le emissioni ricominceranno a salire. Dal punto di vista economico, il fatto che le emissioni calino per loro conto, e non grazie a investimenti, cambiamento dei modelli di consumo e innovazione tecnologica, rischia di far perdere all'Europa, e ai singoli Stati, una grande occasione e costituire uno svantaggio in termini di competitività a livello internazionale.
Tommaso Tautonico
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